giovedì 28 febbraio 2008

Il rapporto della Dia fotografa un quadro in evoluzione

C’era una volta una pistola appoggiata su un piatto di spaghetti fumanti. La copertina con cui Der Spiegel “celebrava” i due principali brand italiani è vecchia di trent’anni. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, e i deboli argini del luogo comune sono stati erosi. Non si può più dire che l’Italia sia il Paese della mafia. Sia perché come ogni brand vincente il sistema-mafia è stato esportato, recepito e rielaborato all’estero, sia perché l’assortimento criminale del mercato locale è stato arricchito da mafie d’importazione. Ma il capitolo di quelle che gli addetti ai lavori chiamano “mafie etniche” è tutto da scrivere, perché se ne sa ancora troppo poco. Una cosa è chiara, comunque: la geopolitica dei fenomeni criminali è strettamente connessa alla geopolitica vera e propria ed il crollo dell’impero sovietico così come la scomparsa delle frontiere tra i Paesi europei, hanno creato un humus favorevole alla diffusione e al consolidamento del fenomeno mafioso. Per sapere quali siano quelle genericamente chiamate “mafie etniche”, basta leggere il rapporto della Dia sul primo semestre del 2007: il documento parla di organizzazioni albanesi, nordafricane, nigeriane, cinesi, rumene e bulgare. Tante le differenze culturali, assorbite, però, in un percorso evolutivo simile. Nascono come piccoli aggregati criminali dediti a reati predatori all’interno della propria comunità per poi passare ad attività più complesse e redditizie. Dal taglieggiamento arrivano al traffico di clandestini e alla prostituzione, e poi al traffico di hashish e marijuana, quindi di eroina e cocaina fino a quello di armi, gestito da gruppi strutturati e ben organizzati. Le regioni dell’Italia centro-settentrionale, soprattutto il nordest, sono il loro territorio di caccia, perché vi circolano più soldi e soprattutto non ci sono mafie autoctone a controllare il territorio, benché il rapporto della Dia confermi una crescente penetrazione anche al sud. È difficile costruire una cartografia delle zone d’influenza o della specializzazione “merceologica”. Il direttore della I Divisione dello Sco, Raffaele Grassi, lo spiega con molta chiarezza: “queste mafie hanno una struttura molecolare, occupano spazi vuoti senza continuità territoriale. Individuiamo un uomo a Perugia e poi lo ritroviamo a Verona. E’ difficile ricostruire le catene associative e i percorsi. Se è vero, poi, che ogni mafia ha una specializzazione, è altrettanto vero che si sovrappongono in quasi tutti i mercati e i commerci, rivolgendosi a fasce diverse. Anche i nigeriani, per esempio, trafficano droga ma quella di qualità è monopolio albanese”. Quasi tutte le organizzazioni sono attive nel traffico di clandestini e di donne da avviare alla prostituzione (i cinesi stanno cominciando solo ora), facili da reperire in patria con le lusinghe o le minacce, in Moldavia come in Nigeria o in Kosovo. Il traffico di stupefacenti è il gradino successivo. Nel panorama italiano, sono gli albanesi (leggi: kosovari) gli unici ad aver compiuto l’intero percorso. Quella kosovara è probabilmente la mafia più potente e spietata in Europa. Ha scalzato quella turca nel controllo delle rotte della droga, dal “triangolo d’oro” fino all’Europa attraverso la “balkan route”, il cui cuore sta in un lembo di terra dalla statualità incerta tra il Kosovo, la Valle di Presevo, il Montenegro e il Sangiaccato. Feudi albanesi, insomma. La struttura clanica, il codice del Kanun che regolamenta il rapporto tra i membri e non lascia scampo ai traditori, le diaspore disseminate in ogni paese occidentale sono i loro punti di forza. Sono i soldi di questa mafia ad aver armato l’Uck e ad aver trasformato il Kosovo in un narcostato governato dai rappresentanti dei principali cartelli. I kosovari fanno affari con la ‘Ndrangheta alla pari e possono permettersi di sfidare Cosa Nostra senza subirne le conseguenze. Il Colonnello Mario Parente, del Ros dei Carabinieri, racconta di una spedizione punitiva compiuta da albanesi contro dei mafiosi, proiezione a Milano di una delle principali famiglie palermitane. I siciliani non si vendicarono mai di quell’affronto. All’estremo opposto si trovano le organizzazioni bulgare e rumene, le meno complesse; in crescita, certo, ma lontane dalla strutturazione e dal peso dei clan kosovari. Sono dedite allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, al traffico di stupefacenti, a reati predatori e alla clonazione di carte di credito, oltre che all’odioso sfruttamento di invalidi mandati a chiedere l’elemosina. In posizione mediana i clan nigeriani. La fotografia del primo semestre 2007 li vede in espansione anche se non si può parlare di salto di qualità. Come gli albanesi hanno una struttura clanica che li rende impermeabili a infiltrati e collaboratori. Il direttore Grassi rivela che le ultime indagini hanno evidenziato un largo uso di centri culturali come copertura di attività illecite. Il ricorso ai riti woodoo e di magia nera è uno strumento costante con cui tengono soggiogate le donne avviate alla prostituzione. Nel Casertano sembrerebbero aver stretto un’alleanza con il clan dei Casalesi e questo ha portato ad una crescita della loro potenzialità operativa.. Beneficiano, inoltre, di una inedita centralità dei paesi dell’Africa Centrale nelle rotte della droga e della presenza di connazionali nei punti nodali dello stesso traffico, in Thailandia, Olanda e Sudamerica. Un discorso a parte si deve fare per la criminalità cinese, la cui azione si sviluppa prevalentemente all’interno della comunità. Lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina dalle province del FiJiang e del LiaoNing, due serbatoi di disperazione, sono una risorsa che genera ulteriori guadagni. Una volta in Italia, infatti, i clandestini devono riscattarsi, sono costretti a lavorare in condizione di quasi schiavitù, sono spesso oggetto di sequestri e vengono liberati dietro il pagamento di un riscatto. Altra fonte di reddito è il racket dal quale sono vessati tutti i commercianti cinesi. Anche quella cinese, come le altre mafie, ha dimostrato, però, duttilità e apertura nel collaborare con altri gruppi, quando necessario. La rotta dell’immigrazione clandestina, Pechino-Europa via Mosca e Repubblica Ceca è gestita da una vera e propria joint venture criminale. Resta la droga, comunque, il business principale, quello che fa girare le ruote dell’ingranaggio criminale. Un mercato che prospera anche grazie a confini porosi e autorità doganali che nei paesi più poveri sono spesso sul libro paga dei boss stessi; una vera benedizione per queste organizzazioni. A volte, però, nemmeno la dogana più sorvegliata è un argine sufficiente. Grassi racconta che il traffico di droga oggi avviene anche attraverso uomini e donne incensurati che ingoiano ovuli imbottiti di eroina e viaggiano come normali turisti. Il direttore allarga le braccia e si lascia sfuggire un sorriso velato d’impotenza: “un solo uomo può portare fino ad un kg di droga. Immagini quanti uomini entrano ogni giorno nel nostro Paese e si faccia i conti”.

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