martedì 19 febbraio 2008

IL VESCOVO ANTIRACKET

SICILIA MONSIGNOR MICHELE PENNISI DI PIAZZA ARMERINA



Dice che il pizzo è «un’industria del male», educa le coscienze a combattere i boss. Ora è sotto scorta, ma va avanti tranquillo: «Il Signore ci liberi dalla mafia».
Da due settimane monsignor Michele Pennisi, vescovo di Piazza Armerina, è protetto dalle forze dell’ordine. Il vescovado è sorvegliato e, quando lui esce, l’autista telefona al comandante della stazione dei carabinieri per segnalare il movimento.
Un vescovo nel territorio di Caltanissetta, Enna, Gela, «dove il fenomeno del pizzo è molto diffuso, e ancora più preoccupante è che le somme pagate vengano riscosse da esattori minorenni». Un vescovo che teorizza l’incompatibilità tra mafia e vita cristiana, che è cofondatore dell’Associazione antiracket e antiusura della provincia di Enna, che ritiene il pizzo «un’industria del male». Un vescovo che ogni giorno avvicina imprenditori e negozianti nelle sue visite pastorali e riceve lettere con richieste di aiuto.
«Una persona mi ha scritto il suo numero di cellulare "mi chiami per favore". Ha parlato della sua disperazione, del suo essere ostaggio dell’usura. "È disposto a denunciare?", gli ho chiesto, e si è convinto. L’ho messo in contatto anche con la Fondazione antiusura Padre Pino Puglisi di Messina, che ha deliberato un aiuto economico, ma poiché è morto di infarto prima di concludere l’iter, il contributo è stato dato ai suoi figli».

Un altro giorno arrivano due piccoli artigiani terrorizzati: hanno denunciato il pizzo e ora non si sentono sicuri, hanno paura di notte in casa. Ricevono incoraggiamento e un contributo, «grazie al quale abbiamo fatto installare una porta blindata. Ma non tanto per questo siamo grati al vescovo, quanto per il sostegno morale ricevuto».
Un vescovo che considera troppo poco chiedere al Signore «liberaci dal male» e allarga il campo: «Liberaci, Signore, dal pizzo e dalla mafia». E mentre alcuni imprenditori siciliani trovano il coraggio di denunciare e Confindustria espelle chi paga senza denunciare, mentre Cosa nostra subisce arresti e una nuova ondata di pentiti, monsignor Pennisi ribadisce «l’incompatibilità fra mafia e vita cristiana, ma essa sia accompagnata dalla prevenzione dei fenomeni criminosi e dall’aiuto ai mafiosi a pentirsi, a riparare il male fatto e a diventare persone nuove».
Per questo qualcuno ha scaricato da Internet la foto del vescovo e ci ha scritto sotto una didascalia: «Ecco il vero boss di Cosa nostra». Il volantino fa il giro della diocesi, varie copie vengono trovate a Gela, arriva anche sul tavolo di Pennisi, con insulti al vescovo «venduto al potere dei soldi, un uomo di Dio attaccato al denaro». Insulti anche al sindaco e ai magistrati del tribunale di Gela, a componenti della Commissione nazionale antimafia, a deputati regionali, «tutti mafiosi». E fra gli insulti, il cenno al personaggio chiave di tutta la storia: il boss di Gela Daniele Emanuello, ucciso dalla polizia mentre tentava di fuggire il 3 dicembre scorso nelle campagne di Villapriolo, Enna. «Perseguitato insieme con i suoi familiari», così lo descrive il volantino anonimo, «vittima della disoccupazione, ucciso dalla polizia che lo ha fatto passare per mafioso».
Il vescovo viene accusato delle mancate esequie di Emanuello nella chiesa Madre di Gela, come richiedeva la famiglia, sostituite con una celebrazione nella cappella del cimitero. Un diniego, spiegano i suoi collaboratori, «non determinato da atteggiamenti persecutori, ma dalle decisioni delle autorità dello Stato che hanno proibito per motivi di sicurezza la celebrazione pubblica del funerale». Ma quel no al funerale ha dato fastidio: per la mafia un prete deve fare le "cose di chiesa", deve pregare e perdonare, non parteggiare per lo Stato.
La valanga della solidarietà
Il volantino fa il giro della diocesi e il Comitato per l’ordine e la sicurezza di Enna assegna al vescovo «non una scorta armata», precisa dalla segreteria padre Giuseppe Rabita, «ma una forma di sorveglianza discreta». E subito si scatena una sorta di assedio al vescovado, decine di emittenti italiane e straniere, richieste di dichiarazioni e interviste.
La prima solidarietà arriva da Roma, dalla Cei: «Pochi minuti dopo i lanci di agenzie con la notizia dell’intimidazione, telefona monsignor Giuseppe Betori». E poi una folla di sostegni siciliani e nazionali, dalle associazioni degli agricoltori ai ragazzi del gruppo Magnificat di Butera «con le loro famiglie», dal redentorista Nino Fasullo da Palermo alla Dc e al Pdci di Gela e di Enna, dal vaticanista Luigi Accattoli al Partito democratico di Enna, dal sindaco di Gela Rosario Crocetta alla Cgil Sicilia. La Cisl di Enna, i sindaci di Barrafranca, Piazza Armerina, Enna. Solidarietà da Rifondazione comunista a Forza Italia, compresa quella di Giuseppe da Brescia, via mail: «Forza eccellenza, siamo tutti con lei».
Il vescovo va avanti, non rifiuta le interviste, capisce le esigenze di una Tv francese che lo blocca per qualche ora. «Continuo a svolgere la mia opera di formazione delle coscienze al rispetto della legalità, siamo pronti a collaborare con l’Associazione antiracket e antiusura di Gela perché il Signore ci liberi dal pizzo e dalla mafia».

Nessun commento: