venerdì 7 marzo 2008

venerdì 14 marzo TEATRO PIETRO ARETINO via Bicchieraia -Arezzo

Compagnia Teatri d'Imbarco
ha il piacere di invitarLa
venerdì 14 marzo
TEATRO PIETRO ARETINO
via Bicchieraia -Arezzo
ORE 21,00 Spettacolo teatrale
Beatrice Visibelli
in
UN MATRIMONIO QUASI FELICE
testo e regia Nicola Zavagli
con
Giovanni Esposito, Vania Rotondi
e
Giulia Attucci, Marco Cappuccini, Duccio Viani, Chiara Martignoni
Fabio Farina, Massimiliano Padelli, Valentina Testoni
Una donna alle prese con un'implacabile pressione debitoria. Una commedia ad alta temperatura morale. Un emozionante thriller dell'anima
Lo spettacolo fa parte del progetto della Regione Toscana
"VIVERE A RATE- FAMIGLIE A RISCHIO USURA"
a cura di Teatri d'Imbarco
in collaborazione con Fondazione Toscana Prevenzione Usura,
Mediateca Regionale Toscana -Film Commission
e con il Patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione
Il progetto è ospitato al Teatro Pietro Aretino
grazie al sostegno del Comune di Arezzo-Ass.to alla cultura
Invitiamo il pubblico a partecipare anche alle altre iniziative del progetto
ore 15,30 proiezione del film "VITE STROZZATE"
di Ricky Tognazzi, con Luca Zingaretti e Sabrina Ferilli
ore 17,30 convegno sul tema " DEBITI FAMIGLIARI"- Un'occasione di dibattito e riflessione sui temi del sovraindebitamento delle famiglie, rischio usura, uso consapevole del denaro.
Durante l'incontro sarà distribuito gratuitamente il libro VITA A CREDITO agile strumento d'informazione sulla cultura della legalità.
Interverranno
Camillo Brezzi, Ass.re alla Cultura, Comune di Arezzo
Francesco Romizi, Coordinatore Provinciale per Libera-Associazioni,, Nomi e Numero contro le mafie e per Arci Arezzo
Alfio Laurenzi, Fisac Cgil Arezzo
Silvio Bonomo, Fiba Cisl Arezzo
Andrea dalla Verde, Caritas Arezzo
Responsabili Centro di Ascolto per la Prevenzione dell'Usura-Misericordia di Arezzo
Coordinatore Nicola Zavagli,Direttore Artistico Teatri d'Imbarco

Informazioni e prenotazioni329-4187925info@teatridimbarco.it

CAMORRA: I ROS ARRESTANO AFFILIATI AL CLAN RUSSO


Nel corso di una maxi operazione dei Carabinieri del Ros nella provincia di Napoli sono stati arrestati tre affiliati al clan Russo, organizzazione dell'area nolana. Sequestrati anche beni mobili e immobili nell'intero territorio nazionale, del valore di 300 milioni di euro, riconducibili al clan. Gli arrestati, tra cui il figlio del capo clan (Salvatore Russo, inserito nell'elenco dei 30 latitanti più pericolosi) sono indagati per associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni e porto abusivo di armi, aggravati dalle modalità mafiose.

Camorra, colpito clan Russo, 1 arresto,sequestri per 300 milioni


I carabinieri hanno arrestato oggi un presunto affiliato al clan camorristico Russo e sequestrato beni per un valore complessivo di 300 milioni di euro che era nella disponibilità dell'organizzazione attiva nella provincia di Napoli. Lo hanno detto oggi fonti investigative e giudiziarie.

I magistrati della Dda napoletana hanno disposto tre ordinanze di custodia cautelare, due delle quali verso persone già in carcere, mentre la terza ha portato all'arresto di Domenico Russo, omonimo del capo clan Salvatore Russo, che resta latitante.
I capi d'accusa sono associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni e porto abusivo di armi aggravati da modalità mafiose, hanno detto le fonti.
L'inchiesta ha portato alla scoperta delle attività di reinvestimento dei capitali provenienti da attività illecite e, di conseguenza, al sequestro di un patrimonio, intestato anche a prestanomi, costituito da aziende edili, supermarket e altre attività commerciali, appartamenti e conti bancari esteri, per un totale di 300 milioni di euro.

mercoledì 5 marzo 2008

"Riprendetevi la vostra medaglia"




L'uomo che arrestò Riina è indagato per estorsione:"Voglio andare da Napolitano"


Il maresciallo «Arciere», che partecipò all'arresto di Totò Riina



Voglio personalmente restituire la medaglia di bronzo del Quirinale al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e anche l’encomio solenne, al Comando Generale dei carabinieri». Due paginette scritte con il pennarello nero; frasi brevi, lungamente meditate. Dove traspare commozione e anche tutta la rabbia del maresciallo dei carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio ambientale, Riccardo Ravera, ora indagato dai pm di Torino per concorso in estorsione, assieme a un poliziotto della Stradale, Giuseppe Cavuoti. Nome in codice «Arciere», il maresciallo fu il vice del capitano «Ultimo». Già. Perché l’uomo che oggi vuole strapparsi dal petto la medaglia, mise le manette ai polsi di Totò Riina, la mattina del 15 gennaio 1993, a Palermo. I suoi guai partono da lontano, nella notte del 19 febbraio 2004 quando, dalla palazzina di caccia di Stupinigi, furono rubati decine di mobili antichi. Un vero tesoro, valevano milioni di euro. Un anno dopo, furono ritrovati in un prato. Intatti. E tutta una gang di antiquari-ladroni finì in cella. Merito soprattutto di «Arciere» e del suo collega agente, pure lui destinatario di un encomio solenne, da parte del ministero degli Interni. Complessa indagine, tra stranezze e colpi di scena: l’Ordine Mauriziano aveva denunciato il furto di 38 mobili d’arte. «Arciere» ne fece ritrovare 42. Curiosa differenza, mentre a Stupinigi stavano indagando un po’ tutti, squadra mobile, Digos, Servizi segreti, Ros. E pure gli investigatori privati delle assicurazioni. Dal Mauriziano furono pagati per il riscatto 250 mila euro, con buona pace di molti, perché il valore del bottino era molto superiore. Da qui, parte l’indagine-bis. Un lungo lavoro sul filo del rasoio, quello di «Arciere». Che il procuratore capo della Repubblica di Torino, Marcello Maddalena, in una lettera del 5 dicembre 2005, inviata all’allora comandante generale dell’Arma, generale Luciano Gottardo, definì così: «... Il particolare impegno del maresciallo Ravera... che ha manifestato e dato prova di particolare capacità investigativa, di tenacia, professionalità e di correttezza, dote assolutamente essenziale in un’indagine come questa, avvalendosi della rete confidenziale da lui posseduta e gestita, poneva anche problemi di deontologia e di giusta cautela, nel trattare e valutare gli elementi acquisiti per siffatta via... ». Il vice di «Ultimo» (attualmente in servizio a Roma, al Noe, nucleo operativo ecologico) è amareggiato ma deciso a lottare: «Aspetto sereno le conclusioni dell’inchiesta. Posso solo dire, oggi, che ogni passo fu concordato e condiviso con il comando. Ho moglie e due figli, il mio stipendio è di 1500 euro al mese, ma il maresciallo Ravera, di soldi sporchi, non ne ha mai presi. Neanche un solo cent». Una carriera tormentata, la sua. Dopo la cattura di Riina, la squadra guidata da «Ultimo», non ebbe poi una grande fortuna. Nel ‘99 fu smantellata e tutti i suoi componenti, «Arciere», appunto, «Vichingo», «Nello», «Omar», «Ombra» e «Pirata», furono tutti trasferiti da Palermo. Qualcuno si congedò. E Ravera? Eccolo, alla fine, nella stazione dei carabinieri di Pinerolo, dopo una breve parentesi nei Ros. Tra i protagonisti dell’operazione «Cartagine», contro i narcos della mafia venne di nuovo allontanato. Destino amaro. Contro il suo trasferimento a Pinerolo, si mosse persino la procura di Torino che tentò - invano - di bloccarlo. Ci fu solo un inutile scambio di lettere, ma l’Arma fu irremovibile. Il suo avvocato di fiducia, Loredana Gemelli, è polemica: «Da mesi chiedo che il maresciallo sia interrogato. In cambio, solo silenzio. Le accuse sono false, mosse da un clima velenoso, da rivalità, invidie. Dimostreremo la sua totale innocenza». Echi di polemiche ormai lontane: «Ma il mio vero nome non doveva essere diffuso. Ragioni di sicurezza, di difesa della mia famiglia. Invece, all’improvviso, scopro dai media di essere indagato. Nome e cognome, una vita e una carriera infangate, forse per sempre. In un giorno mio padre è invecchiato di dieci anni».







martedì 4 marzo 2008

'Ndrangheta, duro colpo alle cosche.Sequestrati beni per 150 milioni


Nel mirino, le famiglie coinvolte per la strage di Duisburg dove furono uccise 6 persone
In corso, da parte dei carabinieri, tra la provincia di Reggio Calabria e la Lombardia, un sequestro di beni per un valore di 150 milioni di euro contro le cosche della ’ndrangheta di San Luca. Nel mirino le famiglie Nirta-Strangio e Pelle-Vottari, protagoniste della faida culminata, nel giorno di Ferragosto 2007, nella strage di Duisburg, in Germania,dove furono uccise sei persone.Sequestri da Reggio alla LombardiaIl controllo territoriale su San Luca delle famiglie Nirta-Strangio da una parte e Pelle-Vottari dall’altra veniva esercitato anche attraverso il possesso materiale di numerosi immobili. Di fatto il paese preaspromontano era in mano alle cosche. È quanto si è appreso in ambienti investigativi dopo l’operazione condotta stamani dai carabinieri. In Lombardia, secondo quanto si è appreso, sono state sequestrate alcune aziende e attività commerciali, ma il grosso dei beni immobili era proprio a San Luca. Il sequestro di stamani giunge dopo oltre un anno di indagini, cominciate dai carabinieri in seguito alla strage di Natale del 2006 nella quale fu uccisa Maria Strangio, moglie di uno dei presunti boss, Giovanni Luca Nirta, ed altre tre persone, tra le quali un bambino, rimasero ferite.Scovato un bunker all'interno di un'abitazioneUn bunker è stato trovato dai carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria nel corso dell’attività di sequestro dei beni. Si trovava al piano terra dell’abitazione di Giuseppe Pelle, figlio del boss Antonio «Gambazza» che i militari stanno cercando strenuamente da settimane. Si ritiene sia un covo «caldo» come gli altri quattro trovati nella locride e che sono stati attribuiti al capo cosca. Era dotato di un sistema con telecomando, elemento comune in molti bunker di boss della ’ndrangheta. Confiscata anche una casa parrocchialeTra i beni sequestrati alle cosche della ’ndrangheta nella locride c’è anche una casa parrocchiale in uso a don Pino Strangio. Secondo gli inquirenti, l’immobile di cui fa parte la prebenda sarebbe riconducibile alle disponibilità di Giuseppe Nirta (68 anni) anche se intestato ad un’altra persona (Palma Giorgi). Don Pino Strangio è il rettore del santuario della Madonna di Polsi, ritenuto il luogo di incontro degli ’ndranghetisti, e parente lontano di una delle vittime della strage di Ferragosto a Duisburg.

La 'ndrangheta fra tribù e Internet



di Francesco Forgione,
Presidente commissione Antimafia
Ha messo in moto enormi traffici nel mercato globalizzato ma è in continua lotta per il controllo di piccoli territori.
Continuiamo a pubblicare ampi stralci della relazione annuale della "Commissione parlamentare Antimafia" dedicata alla n'drangheta. Un vero e proprio affresco di analisi, storie e fatti, per comprendere la natura della più potente organizzazione criminale italiana.
Tra gli anni '80 e '90 la tempesta dei collaboratori di giustizia travolse Cosa Nostra, la camorra, la Sacra Corona Unita e le altre mafie pugliesi. Solo la ‘ndrangheta attraversò questa bufera quasi indenne o comunque limitando fortemente i danni: i pentiti furono pochi, e pochissimi quelli con posizioni di vertice nei sodalizi criminali. La ragione di ciò è nello schema familiare della ‘ndrina: se la cosca è costituita in primo luogo dai membri della famiglia, la scelta di collaborazione con la giustizia (in generale non facile) può diventare straordinariamente lacerante e pressoché insopportabile. Lo ‘ndranghetista che decida di collaborare è infatti tenuto in primo luogo ad accusare i propri familiari, il padre, il fratello, il figlio, trovandosi a dover infrangere un tabù ancora più potente di quello costituito dall'obbligo di fedeltà mafiosa sancito nelle cerimonie di affiliazione e innalzamento. Sul lungo periodo il modello organizzativo della ‘ndrangheta si è dunque rivelato più agile, più flessibile, più efficace di quello gerarchico, monolitico e rigido di Cosa Nostra, rispetto al quale l'aggressione del vertice del sodalizio ha costituito finora un'efficace strategia di indebolimento e di disarticolazione. Strategia inattuabile contro la ‘ndrangheta per l'inesistenza, anche dopo la pace del 1991 (quella che seguì alla sanguinosa guerra fra i De Stefano e gli Imerti-Condello che in poco più di cinque anni lasciò per le strade della Calabria molte centinaia di morti) e la conseguente introduzione di una struttura centrale di coordinamento e composizione dei conflitti.
I mafiosi calabresi sono considerati dai cartelli colombiani come i più affidabili per la loro capacità di gestione degli affari criminali, per la loro disponibilità di basi d'appoggio in tutta Italia, in tutta Europa e in tutto il mondo. Oggi dunque la ‘ndrangheta ha una sostanziale esclusiva per l'importazione in Europa di cocaina colombiana ed è alla ‘ndrangheta che le altre mafie italiane, Cosa Nostra inclusa, devono rivolgersi per gli approvvigionamenti di questo stupefacente. (...) Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono nelle regioni del centro e del nord non per scelta ma perché inviati al confino di Polizia. In quegli anni si riteneva che per contrastare il potere criminale nelle regioni del sud fosse necessario recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d'origine. Lo strumento era quello del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni - dai 3 ai 5 - fuori dal suo comune di nascita o di residenza. Ma l'idea di recidere i legami con il territorio (adatta a un'epoca pre-moderna) non poteva funzionare in un periodo storico in cui rapidissimo era già lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni. Ferrovie, autostrade, aerei e lo sviluppo della telefonia consentirono sostanzialmente di annullare l'effetto dei provvedimenti di soggiorno obbligato. (...) Così, trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord, dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia. Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d'origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante. L'esempio più clamoroso è quello di Bardonecchia dove il condizionamento del mercato del lavoro e lo stesso consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Altri comuni dell'hinterland milanese come Corsico e Buccinasco, ancora oggi, sono pesantemente condizionati dalla ‘ndrangheta. In estrema sintesi e conclusivamente sul punto si può dire che la ‘ndrangheta è l'unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi; quella principale in Calabria, l'altra nei comuni del centro-nord Italia oppure nei principali paesi stranieri che sono cruciali per i traffici internazionali di stupefacenti. Un'organizzazione mafiosa che trova il modo di affrontare le sfide e i cambiamenti imposti dalla modernità globale, nel modo più sorprendente e inatteso: rimanere uguale a se stessa. In Calabria come nel resto del mondo. (...) Negli ultimi anni numerosissime indagini hanno messo in luce queste caratteristiche della ‘ndrangheta e hanno mostrato come essa sia oramai l'organizzazione più ramificata e radicata territorialmente nelle regioni del centro-nord e in molti paesi stranieri di tutti i continenti. (...) Nel 2004 l'operazione convenzionalmente denominata "Decollo" concludeva una complessa indagine transnazionale durata alcuni anni che aveva interessato diverse regioni italiane: Lombardia, Calabria, Emilia-Romagna, Campania, Lazio, Liguria, Piemonte e Toscana; e poi paesi stranieri come Colombia, Australia, Olanda, Spagna e Francia. Le famiglie Mancuso di Limbadi e Pesce di Rosarno furono accusate di aver immesso sul mercato "ingentissimi quantitativi di cocaina tra il Sud America (Colombia e Venezuela), l'Europa (Italia, Francia, Spagna, Olanda e Germania), l'Africa (Togo) e l'Australia, riciclandone quindi i proventi con le più diversificate tecniche di trasferimento e di dissimulazione." La droga era nascosta all'interno di containers che trasportavano carichi di marmo, plastica, cuoio, scatole di tonno, materiale di import-export tra Sud America ed Europa. Una partita di droga di 434 kg di cocaina era arrivata al porto di Gioia Tauro nel marzo del 2000, un'altra di 250 kg sempre di cocaina proveniente da Cartagena in Colombia era arrivata a Gioia Tauro nel gennaio del 2004. Tra le due date, d'inizio e di conclusioni delle indagini, una miriade di altri episodi. Una parte del riciclaggio dei proventi avveniva in Australia. (...) Il contagio delle ‘ndrine da Limbadi e Rosarno all'Australia, da San Luca a Duisburg, come molecole criminali che schizzano, si diffondono e si riproducono nel mondo. Una mafia liquida, che si infiltra dappertutto, riproducendo, in luoghi lontanissimi da quelli in cui è nata, il medesimo antico, elementare ed efficace modello organizzativo. Alla maniera delle grandi catene di fast food, offre in tutto il mondo, in posti fra loro diversissimi, l'identico, riconoscibile, affidabile marchio e lo stesso prodotto criminale. Alla maniera di Al Qaeda con un'analoga struttura tentacolare priva di una direzione strategica ma caratterizzata da una sorta di intelligenza organica, di una vitalità che è quella delle neoplasie, e munita di una ragione sociale di enorme, temibile affidabilità. Il segreto per la ‘ndrangheta è questo. Tutto nella tensione fra un qui remoto e rurale e arcaico e un altrove globalizzato, postmoderno e tecnologico. Tutto nella dialettica fra la dimensione familiare del nucleo di base, e la diffusione mondiale della rete operativa. La capacità di far coesistere con inattesa efficacia una dimensione tribale con un'attitudine moderna e globalizzata è stata fino ad oggi la ragione della corsa al rialzo delle azioni della ‘ndrangheta nella borsa mondiale delle associazioni criminali. Proprio questa tensione, questo fattore di successo potrebbe rivelarsi però, in prospettiva, un fattore di disgregazione. Le ‘ndrine infatti sono, individualmente considerate, troppo piccole per reggere gli enormi traffici che hanno messo in moto. Sono in continua competizione fra loro e, paradossalmente, la loro diffusione planetaria si accompagna a un'intensificata ossessione per il controllo (militare, politico, amministrativo, affaristico) dei circoscritti territori di rispettiva competenza. Una febbre di crescita, una situazione instabile ed entropica che comincia a produrre gravi scricchiolii e potrebbe generare una crisi di sistema.

Come le 'ndrine sono diventate potenti clan



Le origini del legame fra 'ndrangheta e politica risale addirittura al 1869. Ma se ne sa ancora troppo poco.
Continuiamo a pubblicare stralci significativi della relazione annuale della "Commissione parlamentare Antimafia" dedicata alla n'drangheta, presentata nei giorni scorsi.
Un vero e proprio affresco di analisi, storie e fatti, per comprendere la natura e l'importanza della più potente organizzazione criminale italiana.

Le origini del legame fra 'ndrangheta e politica risale addirittura al 1869. Ma se ne sa ancora troppo poco Continuiamo a pubblicare stralci significativi della relazione annuale della "Commissione parlamentare Antimafia" dedicata alla n'drangheta, presentata nei giorni scorsi. Un vero e proprio affresco di analisi, storie e fatti, per comprendere la natura e l'importanza della più potente organizzazione criminale italiana Francesco Forgione*
1. Le origini 1869. Quell'anno gli elettori della città di Reggio Calabria furono chiamati a votare per due volte. Le elezioni amministrative erano state annullate e si dovettero rifare. L'attiva presenza in campagna elettorale e durante le votazioni di elementi mafiosi aveva alterato il risultato della competizione. In quelle giornate si erano registrati anche fatti di sangue. Tra le altre persone colpite, anche un medico, sfregiato al volto in pieno giorno. Il fatto, per quei tempi era enorme e aveva suscitato scalpore e scandalo nell'opinione pubblica. Il prefetto di Reggio Calabria, che si era recato personalmente dalla vittima per verificare le circostanze dell'accaduto, era convinto, come scrisse in una relazione, che "lo sfregio" fosse stato fatto "per grane elettorali". I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che giravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero "obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità". Siamo nel lontanissimo 1869, potremmo essere ai nostri giorni. Uno dei lati meno conosciuti della ‘ndrangheta è proprio il suo rapporto con la politica che, com'è accaduto per Cosa nostra e la camorra, è molto antico anche se è stato meno visibile e a lungo ritenuto inesistente o sottovalutato nella sua dimensione ed importanza. Essa si è inserita nelle litigiosissime lotte per il potere che in Calabria per un lunghissimo periodo storico - dalla metà dell'Ottocento in poi - si sono caratterizzate come uno scontro furibondo tra famiglie contrapposte che si contendevano i voti usando tutti i mezzi, non esclusi i metodi violenti e mafiosi. Ad inizio decennio, nel 1861, il prefetto di Reggio Calabria aveva notato un'attività di camorristi. Chiamava così i delinquenti dell'epoca non avendo altro nome per definirli. La scoperta del termine ‘ndrangheta è molto più recente e per trovarne le prime tracce dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso. La ‘ndrangheta è l'organizzazione mafiosa meno conosciuta e meno indagata. Uno dei suoi punti di forza risiede esattamente in questa scarsa conoscenza e debole attività investigativa che le ha consentito di agire indisturbata senza subire le attenzioni riservate storicamente da parte degli inquirenti alla mafia siciliana. Per anni e anni essa è stata considerata un'organizzazione criminale secondaria, una mafia minore, una mafia di serie B. Non a caso tutte le proposte fatte a partire dagli anni sessanta da parlamentari calabresi, da sindaci, da varie organizzazioni di estendere la competenza della commissione parlamentare antimafia anche in Calabria oltre che in Sicilia sono sempre cadute nel nulla. Si arrivò ad estendere la competenza superando il vincolo territoriale che la relegava alla Sicilia molto tardi, nella X Legislatura con la Commissione antimafia presieduta dal senatore Gerardo Chiaromonte. Molti ritenevano che il fenomeno mafioso calabrese fosse espressione degli ultimi decenni e fosse nato durante il boom economico degli anni '60 che aveva portato grandi cambiamenti anche in Calabria determinando un'accelerazione anche dei processi criminali e mafiosi. Era un grosso abbaglio. Quello che allora apparve a molti come un fenomeno nuovo e originale era in realtà la manifestazione più recente e più evidente di un fenomeno molto antico. La ‘ndrangheta, insomma, non era nata negli anni sessanta del secolo scorso, come molti scrissero e dissero. La sua nascita avviene sotto forma di società segreta e non è dubbio che il modello di società segreta più vicino, più simile, più aderente alla realtà, ai valori, alle esigenze della delinquenza organizzata, fosse rappresentato dalla massoneria e dalle società segrete che fiorirono nella prima metà dell'Ottocento, importate in Calabria dai francesi di Gioacchino Murat, con programmi anticlericali, giacobini e pre-risorgimentali. Tale caratteristica è molto importante per la comprensione del fenomeno e della sua evoluzione sino ai nostri giorni. Essa aveva sicuramente una duplice funzione: la prima, difensiva, per assicurare invisibilità rispetto al potere ufficiale, alla repressione poliziesca e giudiziaria; la seconda, offensiva, per meglio realizzare l'inserimento nei circuiti del potere, nella società e nello Stato. Una siffatta caratteristica, mutuata dalla massoneria del tempo, conservò intatta la sua forza coesiva e il suo vincolo omertoso, rendendola unica, pur nelle sue continue trasformazioni, nel panorama delle organizzazioni criminali. La ‘ndrangheta - "picciotteria" è il termine usato fino all'inizio del nuovo secolo - è già presente in molti comuni della Calabria post-unitaria, ma lo Stato di allora non ne coglie l'importanza e la pericolosità. Molti, però, non si accorsero della sua attività solo perché non ne era conosciuto il nome, mentre le azioni che segnavano il suo progredire venivano attribuite a formazioni criminali di varia denominazione che non venivano ricomprese in un'associazione riconoscibile con un nome, un'identità, un'organizzazione comune. Erano in pochi a vedere come invece quei fatti potevano essere attribuiti a un fenomeno che stava prendendo sempre più piede e andava radicandosi. Si estendeva anche grazie ad un sapiente uso dei codici e dei rituali, di modalità simboliche e immaginifiche che avevano il potere di affascinare i giovani, di attrarli nell'orbita ‘ndranghetista, di educarli alla legge dell'omertà e alla convinzione che ci fossero altre leggi più importanti di quelle dello Stato e che tutto ciò fosse appannaggio di una società speciale, composta da "veri" uomini: gli uomini d'onore. Sorgono così le ‘ndrine a carattere famigliare e si diffondono nelle città e nei villaggi più sperduti. Ogni ‘ndrina comanda in forma monopolistica nel suo territorio ed è autonoma dalle altre ‘ndrine operanti nei territori vicini. Il modello organizzativo della ‘ndrangheta si fonda sul "locale", presente sul territorio laddove esiste un aggregato di almeno 40 uomini d'onore, con un' organizzazione gerarchica che affida il ruolo di "capo società" a chi possiede il grado di "sgarrista", regolando la vita interna su rigide e vincolanti regole: assoluta fedeltà e assoluta omertà. Il mondo esterno, separato da quello della ‘ndrina, era composto da soggetti definiti "contrasti", categoria inferiore destinataria di disprezzo e dagli uomini dello Stato, gratificati dal giudizio "d'infamità". Nella ‘ndrangheta sono sempre esistiti accordi tra famiglie di diversi comuni ed è anche capitato che "capobastone" influenti e prestigiosi estendessero la loro influenza nei territori vicini a quello dov'era insediata la propria famiglia, ma non si è mai arrivati ad un centro di comando unico. Per trovare qualcosa di simile dobbiamo arrivare agli accordi successivi alla guerra di mafia tra il 1985 e il 1991. Le differenze rispetto alle altre mafie Il modello organizzativo è profondamente differente dalle altre organizzazioni mafiose: si basa sulla forza dei vincoli familiari e sull'affidabilità garantita da questi legami, un formidabile cemento che unisce e vincola gli ‘ndranghetisti uno all'altro e ne impedisce defezioni e delazioni. Lo si vede quando esplose il fenomeno dei collaboratori di giustizia. La ‘ndrangheta ha avuto sicuramente un numero meno rilevante di collaboratori e fra essi nessuno era un capo famiglia. Né ci sono mai stati collaboratori dello spessore criminale di quelli siciliani o campani. La struttura familiare e i suoi codici morali hanno impedito a molti ‘ndranghetisti di parlare. Tra l'altro, il fatto che le ‘ndrine fossero autonome l'una dalle altre ha fatto sì che le poche collaborazioni colpissero la famiglia di appartenenza lasciando intatte le altre, anche le più vicine al loro territorio. Su questo aspetto è utile un approfondimento. Le collaborazioni di un certo spessore degli anni '90 sono rimaste in linea di massima casi isolati. Tuttavia le ultime audizioni effettuate in Commissione colgono i segni di una possibile inversione di tendenza. Secondo Mario Spagnuolo, Procuratore aggiunto della D.D.A. di Catanzaro, "negli ultimi 4 anni, si è riscontrato un aumento esponenziale (qualitativamente appagante) di collaboratori di giustizia e questo non solo nelle zone in cui tradizionalmente si collabora (il cosentino) ma anche nel crotonese, qualche buon collaboratore di giustizia nel vibonese, ma, soprattutto, sono aumentati i testimoni di giustizia". E questa rappresenta una novità che incide favorevolmente sul rapporto tra lo Stato e colui che mette la propria vita nelle mani della giustizia. Appare inoltre significativo quanto affermato dal direttore della Direzione Anticrimine Centrale della Polizia di Stato, Franco Gratteri: "per quanto riguarda i collaboratori, posso dire che esponenti organici a famiglie del crotonese, persone importanti che hanno commesso azioni illecite, violente e di una certa gravità, hanno scelto o stanno scegliendo di collaborare. Si tratta di un fatto importante, ma da prendere per quello che è e non saprei dove possa portare in futuro". Dalle parole del direttore emerge però tutta la complessità del rapporto tra i collaboratori della ‘ndrangheta e la giustizia e la difficoltà nel trasformare il fenomeno della collaborazione in un dato acquisito e costante dell'azione di contrasto. I dati ci indicano comunque che dal 1994 al 2007, i collaboratori di giustizia in Calabria, pongono la ‘ndrangheta al terzo posto per collaborazioni dopo la camorra e Cosa nostra. Su un totale complessivo di 794 collaboratori di giustizia solo 100 provengono dalla ‘ndrangheta (il 12,6 %), mentre 243 dalla mafia siciliana, 251 dalla camorra, 85 dalla SCU, 115 da altre organizzazioni. In controtendenza invece, risulta essere il dato relativo ai testimoni di giustizia. In particolare, su un totale di 71 testimoni, quelli che hanno reso dichiarazioni su fatti di ‘ndrangheta sono 19 (circa il 27%); su fatti di camorra 26, sulla mafia siciliana 12 (e qui emerge altro dato significativo), 2 sulla Sacra Corona Unita e infine 12 su altre organizzazioni. *Presidente della Commissione Antimafia

La 'ndrangheta. Storia di una mafia liquida, potente, pericolosa e ben infiltrata nella società


La relazione annuale della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, un racconto istruttivo e approfondito del peggiore male italiano.

di Francesco Forgione, Presidente della Commissione antimafia

Sono passate da poco le due della notte fra il 14 e il 15 agosto 2007 a Duisburg, nel Nord Reno Westfalia. Sebastiano Strangio, trentanove anni, cuoco, calabrese originario di San Luca, chiude il suo ristorante e, con due camerieri e tre amici, si accinge a tornare a casa. I sei sono appena entrati nelle macchine, parcheggiate a qualche decina di metri dal ristorante, quando vengono raggiunti e stroncati dal fuoco incrociato di due pistole calibro nove. Nel giro di pochi secondi vengono esplosi ben 54 colpi da esecutori spietati e lucidi. Lo testimoniano, fra l'altro le rosate strette sulle fiancate delle macchine, il fatto che, ad azione in corso, i due esecutori abbiano addirittura cambiato i caricatori delle pistole, e il colpo di grazia inflitto con calma e determinazione a tutte le vittime.
Gli assassini scompaiono dopo aver completato il lavoro con i colpi di grazia. Nelle due macchine rimangono i cadaveri di Sebastiano Strangio, Francesco Giorgi (minorenne), Tommaso Venturi (che proprio quella sera aveva festeggiato i diciotto anni), Francesco e Marco Pergola (20 e 22 anni, fratelli, figli di un ex poliziotto del commissariato di Siderno) e Marco Marmo, principale obiettivo dell'inaudita azione di fuoco perché sospettato di essere stato il custode delle armi utilizzate per uccidere, a San Luca il precedente Natale, Maria Strangio, moglie di Giovanni Nirta. Le vittime fanno in vario modo riferimento al clan Pelle-Vottari, in lotta da oltre quindici anni con il clan Nirta-Strangio (non induca in errore il nome del cuoco che, pur chiamandosi Strangio, fa riferimento al clan Pelle Vottari). Con la strage di Ferragosto a Duisburg la Germania e l'Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l'enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico. Molte cose colpiscono gli stupefatti investigatori tedeschi e l'immaginario collettivo: la determinazione e la professionalità degli assassini, il numero e l'età dei morti, il fatto che la strage sia stata compiuta nel cuore dell'Europa civilizzata a migliaia di chilometri di distanza da San Luca e un santino bruciato - indicatore inequivoco di una recente affiliazione rituale - trovato in tasca a uno dei giovani assassinati. Parte sotterraneo da San Luca ed erompe a Duisburg un connubio esplosivo fra vendette ancestrali e affari milionari, un misto di faide tribali e di spietata modernità mafiosa, producendo uno shock improvviso e micidiale per l'opinione pubblica e per le autorità tedesche. In realtà, però, i segni premonitori c'erano già tutti da tempo e la strage di Ferragosto è un indicatore tragico e quasi metaforico della sottovalutazione da parte delle autorità tedesche della ‘ndrangheta e del suo grado di penetrazione e radicamento in quel paese, oltre che in Europa e nel resto del mondo. La presenza ‘ndranghetista in Germania risalente già agli anni 70 e 80 (quando a più riprese viene rilevata la presenza delle famiglie Farao di Cirò in provincia di Crotone, dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, delle famiglie di Reggio Calabria, delle storiche famiglie mafiose originarie di Africo, di San Luca, di Bova Marina e di Oppido Mamertina) era ben nota alle autorità tedesche anche solo per le richieste di assistenza giudiziaria e investigativa della magistratura e delle forze di polizia italiane. Già nel 2001 l'indagine dei Carabinieri convenzionalmente denominata Luca's aveva poi segnalato, anche alle autorità tedesche, il ristorante "Da Bruno" davanti al quale si è verificata la strage, e in generale, il cospicuo fenomeno del riciclaggio di denaro sporco nel settore della ristorazione, in quel paese. La segnalazione non aveva prodotto concreti risultati investigativi, e la percezione che si ricava da questo scarso riscontro (a parte le carenze della legislazione tedesca in materia di repressione del riciclaggio e, più in generale, di aggressione dei patrimoni illeciti) è che l'atteggiamento delle autorità tedesche fosse di rimozione del problema, considerato, in modo più o meno inconsapevole, affare altrui. Affare degli italiani. Affare nostro. La strage di Duisburg, come una metafora, spiega meglio di ogni discorso, meglio di ogni analisi, meglio di ogni riflessione, che il modello di crimine globale, rappresentato dalla ‘ndrangheta, non è (solo) affare nostro. Il 15 agosto ha rotto un tabù, ma chi fosse stato attento ai segnali, agli indizi, alle crepe, avrebbe potuto dire anche prima che era solo questione di tempo. La strage di Duisburg è stata come un geiser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l'alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. La crepa nella superficie in questo caso viene da lontano. Da un altrove inquietante e nascosto, lontano nello spazio e lontano nel tempo.
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Questo altrove è San Luca, località strategica nella storia e nell'attualità della ‘ndrangheta, luogo cruciale per il controllo dei traffici di droga che producono enormi profitti e sede altresì di una lunga e sanguinosa faida che vede lo scontro fra due gruppi famigliari dell'aristocrazia mafiosa calabrese. I Nirta-Strangio (principi del narcotraffico con basi in Olanda, Germania e oltreoceano) da un lato e Vottari-Pelle-Romeo (il cui capobastone, 'Ntoni Pelle negli anni passati era stato designato, al santuario della Madonna di Polsi, capo crimine, cioè reggente e garante di tutta la ‘ndrangheta secondo il modello organizzativo federale elaborato dopo la guerra-pace del 91), dall'altro. La faida nasce per un motivo banale, per una bravata di giovinastri finita in tragedia. È una sera di carnevale del 1991, un gruppo di ragazzi vicini alla famiglia Strangio prende a bersagliare con uova marce il circolo ricreativo di Domenico Pelle, facendosi beffe delle proteste e delle imprecazioni del titolare. L'offesa non rimane impuntita e la sera di San Valentino due giovani della famiglia Strangio vengono uccisi, altri due feriti. Da quel momento gli anni 90 vengono segnati da un'impressionante sequenza di attentati e uccisioni che colpiscono ora l'una, ora l'altra parte in conflitto. La faida culmina nell'omicidio del Natale 2006 quando un gruppo di killer armati di pistole e fucili uccide Maria Strangio moglie di Giovanni Nirta. Seguono altri omicidi, latitanze volontarie (per sfuggire alla vendetta altrui o per preparare più agevolmente la propria), scosse sempre più intense e pericolose che preludono alla mattanza di Ferragosto. (...) Le indagini, finalmente coordinate, delle autorità italiane e tedesche, consentono ben presto di verificare l'ipotesi investigativa formulata subito dopo il fatto. Responsabili della strage sono infatti appartenenti alla cosca Nirta-Strangio, e personaggio chiave dell'eccidio è una figura paradigmatica della ‘ndrangheta del terzo millennio, in perfetto equilibrio fra tradizione e modernità: Giovanni Strangio. Si tratta di un imprenditore della ristorazione in Germania (titolare di due ristoranti a Kaarst), è poliglotta, si muove con estrema disinvoltura sull'asse italo tedesco e fino al dicembre 2006 (quando, in occasione dei funerali di Maria Strangio, viene arrestato dalla Polizia per detenzione di una pistola) era sostanzialmente incensurato. Che un soggetto con queste caratteristiche (e, lo si ripete, con un curriculum criminale pressoché inesistente), chiaramente dedito al segmento affaristico dell'attività criminale sia diventato uno dei ricercati più importanti d'Italia e d'Europa per la partecipazione ad un'azione di sterminio eclatante e senza precedenti, dà un'idea efficace della posta in gioco per le cosche di San Luca. È così che una sanguinosa faida d'Aspromonte porta all'attenzione dell'Europa e del mondo una mafia con caratteristiche singolari e apparentemente contraddittorie. Un modello criminale caratterizzato da impreviste e sorprendenti analogie con altri fenomeni della postmodernità. Un paradossale paradigma per gli studiosi moderni del concetto di efficacia.
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Riflettere brevemente sul significato della parola ‘ndrangheta non è un mero esercizio accademico e offre invece interessanti spunti di riflessione e analisi storica. L'ipotesi etimologica più convincente fa riferimento al vocabolo greco andragatia il cui significato allude alle virtù virili, al coraggio, alla rettitudine. L'andragatia è la qualità dell'uomo coraggioso, retto e meritevole di rispetto e la ‘ndrangheta storicamente ha sempre cercato il consenso presentandosi come portatrice di questi valori popolari e in particolare di un sentimento di giustizia e ordine sociale che i poteri legali non erano in grado di assicurare, in ciò manipolando strumentalmente la sfiducia delle popolazioni nei confronti dello Stato e delle Istituzioni. Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ‘ndrangheta, è che essa non è un'organizzazione di povera gente ma una struttura (composta da soggetti che si autodefiniscono portatori di virtù altamente positive) molto più complessa e dinamica, che, pur se in modo autoreferenziale, si considera un'elite e che tende all'occupazione delle gerarchie superiori della scala sociale. Il principale punto di forza della ‘ndrangheta è nella valorizzazione criminale dei legami familiari. La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone; essa è l'asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ‘ndrina. È in ciò, la più importante ragione del successo della ‘ndrangheta, della sua straordinaria vitalità attuale, della sua superiorità rispetto ad altre forme di aggregazione criminale. Storicamente ogni ‘ndrina familiare era autonoma e sovrana nel proprio territorio (di regola corrispondente al comune di residenza del capobastone), a meno che non ci fossero altre famiglie ‘ndranghetiste. In tal caso si operava una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c'erano più ‘ndrine la coabitazione era regolata dal ‘locale', una sorta di struttura comunale all'interno della quale trovavano compensazione le esigenze, anche contrastanti, delle diverse famiglie. È bene precisare che non c'è mai stata una struttura di vertice della ‘ndrangheta calabrese paragonabile a quella della Commissione di Cosa Nostra e fu solo nel 1991 che, per superare un conflitto che aveva generato diverse centinaia di omicidi, fu costituita una struttura unitaria di coordinamento. (...)
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Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l'organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina (mediando fra le due rotte, quella africana e quella colombiana), quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri. In tutte queste realtà operano attivamente delle ‘ndrine che, a partire dagli anni 60 e ancor prima - gli anni trenta per quanto riguarda il Canada e l'Australia - si erano spostate dalla Calabria per spargersi letteralmente in tutto il mondo. Gli ‘ndranghetisti arrivarono in questi nuovi territori dapprima al seguito degli emigrati, ma poi, e sempre più spesso, in seguito ad un'esplicita scelta di politica mafiosa di vera e propria colonizzazione criminale. La ‘ndrangheta affronta le sfide della globalizzazione con una modernissima utilizzazione di antichi schemi, con una combinazione di strutture familiari arcaiche e di un'organizzazione reticolare, modulare o - per usare l'espressione di un grande studioso della modernità e della post modernità, Zygmunt Bauman - liquida.

Palermo, sfida ai clan: apre il supermercato pizzo-free


Gli imprenditori che si sono opposti al racket hanno decisodi dare vita all'impresa. "E questo è solo il primo..."
Tutto è cominciato con una valanga di adesivi listati a lutto, comparsi a sorpresa sui muri della città, che dicevano "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Adesso, a quattro anni di distanza da quell'originale campagna antimafia, nasce nel cuore di Palermo il primo "Punto pizzo-free", un negozio che vende solo prodotti di commercianti che hanno deciso di ribellarsi pubblicamente alle estorsioni aderendo al comitato Addiopizzo, che dell'iniziativa degli adesivi è stato il promotore. Quei ragazzi inorriditi davanti alle statistiche della Procura di Palermo secondo le quali l'ottanta per cento dei commercianti pagavano il racket, si sono rimboccati le maniche e hanno dato vita a una associazione che aiuta imprenditori e negozianti che vogliono opporsi al balzello mafioso. E dentro Addiopizzo è nata la "lista di consumo critico", un elenco pubblico che riporta i 241 nomi di imprenditori e commercianti che si sono opposti al racket delle estorsioni, in modo che la città sappia da chi comprare senza rischiare di foraggiare le organizzazioni criminali. Trenta di questi imprenditori e commercianti hanno deciso di far confluire i loro prodotti "certificati Addiopizzo" in un negozio. Un piccolo grande supermercato della legalità, che sabato verrà inaugurato nel cuore di Palermo: in corso Vittorio Emanuele, a pochi passi dall'Antica focacceria San Francesco, ultimo dei luoghi simbolici della nuova lotta contro la malavita organizzata. Il proprietario, Vincenzo Conticello, infatti ha indicato in un'aula di tribunale gli uomini che puntualmente si presentavano a chiedergli il pizzo, consentendone la condanna. L'operazione del negozio pizzo-free è frutto dell'impegno di un giovane palermitano, Fabio Messina, 29 anni, commerciante iscritto all'associazione. Con la sua enoteca ha deciso di fare un passo in più, e dare una mano a tutti i suoi colleghi imprenditori: "Credo fosse giunta l'ora di creare un po' di movimento economico - dice Messina - all'interno della lista degli aderenti, perché è giusto dare un'occasione in più ai commercianti che non pagano il pizzo. E poi è più facile anche per i consumatori se anziché andare in giro da un posto all'altro, possono comprare tutto quello che serve in un unico punto vendita". L'importanza di cominciare dal centro storico è senz'altro simbolica, ma non manca una valutazione squisitamente commerciale: degli oltre 9 mila acquirenti abituali di prodotti pizzo-free, il numero maggiore si trova nel centro di Palermo, seguito con molte migliaia di differenza dagli altri quartieri della città. Mentre da tutta Italia sono più di 2 mila 200 i messaggi di solidarietà arrivati all'associazione. È sul territorio nazionale infatti che le associazioni anti-racket raccolgono i maggiori consensi. Mercoledì per esempio alla cooperativa "Pio La Torre - Libera Terra", che gestisce i terreni confiscati a cosa nostra nell'Alto Belice corleonese, verrà donato un trattore "Acquistato - dicono da Libera - grazie al contributo dei Comuni di Fabrico, Correggio, San Martino in Rio, Rio Saliceto, Campagnola e Novellara in provincia di Reggio Emilia, insieme alle tante associazioni della zona e alla Camera del Lavoro". Forte dell'ondata di successi raccolti in questi quattro anni di attività, il cartello degli imprenditori antimafia lancia la sua sfida: combattere la criminalità dal basso, a partire dagli atteggiamenti quotidiani, per arrivare a sconfiggere un sistema radicato. Comprare solo in alcuni negozi e non in altri, è secondo loro uno di questi atteggiamenti. Le porte dell'emporio "pizzo-free" sono aperte per qualunque altro di loro voglia farsi vanti e partecipare all'avventura. Anzi, a pochi giorni dall'apertura Fabio Messina rilancia con una proposta ambiziosa: "fare del marchio "Punto pizzo-free" un franchising da esportare in tutta Italia, con la creazione di tanti punti vendita". Nell'emporio si possono trovare oggetti in legno e ceramica creati da giovani artisti, le coppole della tradizione siciliana rivisitate con tessuti e colori nuovi, opere di artigianato e naturalmente i prodotti biologici delle cooperative che gestiscono i terreni confiscati alla mafia, come i vini, la pasta e le conserve dell'associazione Libera Terra, la cooperativa che ha appoggiato insieme al comitato Addiopizzo l'iniziativa del giovane imprenditore palermitano.